Il momento decisivo che ha cambiato il mio rapporto con Giacomo Leopardi è stato quello in cui ho letto per la prima volta questo passo dallo Zibaldone di pensieri del 23 luglio 1827:
«Cangiando spesse volte il luogo della mia dimora,
e fermandomi dove più dove meno o mesi o anni,
m’avvidi che io non mi trovava mai contento, mai nel mio centro,
mai naturalizzato in luogo alcuno».
Quel “mai nel mio centro” ha cambiato per sempre la mia vita. Io, una ragazza di vent’anni, leggo per la prima volta questo pensiero, nel 2019, scritto da un ragazzo di ventinove anni nel 1827. Chi è questo giovane? È il coltissimo e austero Giacomo Leopardi, autore delle poesie difficili che ci facevano studiare a memoria al liceo. Temuto da molti giovani ed etichettato come “pessimista” e “depresso”.
Sembra un’altra persona quella che si pensa abbia scritto queste parole: «mai nel mio centro, mai naturalizzato in luogo alcuno». Eppure è lo stesso Giacomo, ed è sorprendente come il ritratto che qui dà di se stesso assomigli a quello di noi ragazzi del ventunesimo secolo.
Per conoscere a pieno Giacomo Leopardi non bisogna scontargli nulla, non bisogna scartare una sola pagina dai suoi scritti e non si possono dimenticare determinati episodi della sua vita. Leopardi è stato un pessimista, ma per i molti che lo definiscono tale questa è l’ultima parola.
Invece, analizzando alcuni suoi scritti che annota negli anni (ha scritto tantissimo, e questa è la nostra maggiore fortuna) troviamo molte sorprese. Emblematica in questo senso è la pagina dello Zibaldone del 17 aprile 1826 dove scrive:
«Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. […] Non ardirei però estenderlo a dire che l’universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all’ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?»
È come se Leopardi dicesse: “Sì, per me tutto è male. Ma potrebbe anche esserci qualcosa che non è del tutto negativo”. Così nasce l’interrogativo finale che quasi ribalta tutte le considerazioni fatte fino a quel momento: «Chi può conoscere i limiti della possibilità?».
A mio avviso, un aspetto a cui non si può eludere è la sua incoerenza. Il poeta recanatese è incoerente, si smentisce sistematicamente in molte delle sue affermazioni. Lo capiamo, ad esempio, leggendo queste due definizioni che dà della noia:
«La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall’esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; […] Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali»
«La noia è la più sterile delle passioni umane. Com’ella è figlia della nullità, così è madre del nulla: giacché non solo è sterile per se, ma rende tale tutto ciò a cui si mesce o avvicina».
(Zibaldone di pensieri, 30 settembre 1821)
Un’altra grande caratteristica di Leopardi la definirei più una sua capacità: quella di metterci in ordine l’esistenza. Questo suo potere lo mette in atto soprattutto attraverso la sua domanda, che tiene sempre accesa in quasi tutti i suoi scritti. Prendiamo uno degli esempi più famosi, dal Canto notturno di un pastore errante dell’Asia:
«e quando miro in cielo arder le stelle; dico fra me pensando:
a che tante facelle? che fa l’aria infinita, e quel profondo infinito seren? che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono?»
All’interno di questa poesia si possono contare numerosi interrogativi esistenziali, e non sono gli unici all’interno della produzione lirica leopardiana. Ad esempio, nella celebre A Silvia troviamo:
«O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?»
O ancora, sempre in A Silvia:
«questo è quel mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte dell’umane genti?»
Attraverso i suoi interrogativi sempre presenti e forti, il poeta di Recanati ci permette, a noi che leggiamo, di non dare nulla per scontato. Dalla luna e le stelle che vediamo illuminarsi in cielo, fino a quella giovane ragazza che vediamo lentamente cedere al passare del tempo. Quanti aspetti della vita, infondo, non notiamo nemmeno e perciò non ricordiamo?
Il giovane Giacomo, a questo proposito, annotava nel suo Zibaldone questo piccolo ricordo di se stesso da bambino:
«Io dunque da fanciullo aveva questo costume. Vedendo partire una persona, quantunque a me indifferentissima, considerava se era possibile o probabile ch’io la rivedessi mai. Se io giudicava di no, me le poneva intorno a riguardarla, ascoltarla, e simili cose, e la seguiva o cogli occhi o cogli orecchi quanto più poteva, rivolgendo sempre fra me stesso, e addentrandomi nell’animo, e sviluppandomi alla mente questo pensiero: ecco l’ultima volta, non lo vedrò mai più, o, forse mai più. E così la morte di qualcuno ch’io conoscessi, e non mi avesse mai interessato in vita; mi dava una certa pena, non tanto per lui, o perch’egli m’interessasse allora dopo morte, ma per questa considerazione ch’io ruminava profondamente: è partito per sempre per sempre? Sì: tutto è finito rispetto a lui: non lo vedrò mai più: e nessuna cosa sua avrà più niente di comune colla mia vita».
L’insegnamento che possiamo trarre da queste parole non può essere se non questo: occorre cominciare a guardare tutte le cose come se fosse l’ultima volta.
Noi oggi siamo decentrati, facciamo fatica a capire su cosa davvero concentrare la nostra attenzione; poi però i giorni passano e le cose così come le persone seguono lo scorrere del tempo. Dice l’iscrizione posta sotto l’orologio di Palazzo Venieri a Recanati: “Volat irreparabile tempus”.
Di Caterina Golia