“E’ ancora possibile la poesia?” è il titolo della prolusione di Eugenio Montale scritta in occasione del premio Nobel per la letteratura il 12 dicembre 1975.
Il testo montaliano è ricco di riflessioni e osservazioni che, seppur riguardano la realtà poetica del periodo contemporaneo al poeta, ci toccano più da vicino.
Quali sono le origini della poesia?
“[…] ritengo ch’essa sia nata dalla necessità di aggiungere un suono vocale (parola) al martellamento delle prime musiche tribali”.
Così spiega Montale, accostando di fatto parola e suono in una situazione di ‘necessità’ vocalica e ritmica. Il poeta sta confermando l’etimologia della parola ‘lirica’, necessariamente collegata a ‘lira’. Assieme agli antenati del tamburo, riproduttore del ritmo primitivo, la lira era uno degli strumenti musicali più antichi con cui si accompagnava il suono della parola. Essa, nella sua forma più primitiva, lungi dall’essere contenitore di significato non era altro che suono.
Poi accade qualcosa:
“La poesia tende a schiudersi in forme architettoniche, sorgono i metri, le strofe, le così dette forme chiuse”, dice il poeta, ma “lentamente la poesia si fa visiva perché dipinge immagini, ma è anche musicale”.
La parola non scinde mai il suo legame con il suono, da cui pur sempre deriva, ma nel tempo del suo sviluppo assume forme grafiche e architettoniche: è parola per l’occhio. Diventa immagine.
“Ma verso la fine dell’Ottocento le forme chiuse della poesia non soddisfano più né l’occhio né l’orecchio”
continua a dire Montale: qualcosa si rompe e si espande allo stesso tempo, alla parola non basta più aderire al suono e all’immagine. Non solo, cambia anche l’atteggiamento del poeta:
“il bisogno che l’artista ha di farsi ascoltare prima o poi diventa bisogno spasmodico dell’attuale, dell’immediato”
dirà Montale, riferendosi a certe forme di arte e di poesia inevitabilmente figlie dell’esperienza delle avanguardie futuriste.
E così, mentre Montale in Ossi di seppia scriverà “[…] Non domandarci la formula che mondo possa aprirti” per testimoniare un’impossibilità espressiva ed esistenziale di solidità, nel 1969 Samuel Beckett metterà in scena Breath, trentacinque secondi di dramma teatrale senza copione (salvo alcune scarne indicazioni sceniche), senza attori, senza parole, così distribuiti:
cinque secondi di luce fioca sulla scena formata da un ammasso eterogeneo di rifiuti.
Di seguito, fuori scena, un piccolo grido.
Lenta inspirazione in crescendo per dieci secondi con la luce che aumenta a mano a mano che sale l’inspirazione.
Cinque secondi di silenzio e luce fissa.
Lenta espirazione in decrescendo per dieci secondi con la luce che diminuisce a mano a mano che l’espirazione procede.
Nuovamente il grido-vagito.
Cinque secondi di silenzio e luce fioca in ripresa dell’apertura.
La condizione afasica novecentesca sembra quindi riassumersi nella formula teatrale beckettiana, concentrata “[…] su un mucchio di macerie cui è negata anche la meditazione cosciente sulla propria frantumazione”, scrive Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno nel tentativo di analizzare persino il fallimento dell’arte nella rappresentazione della realtà.
Guardando allo scenario poetico odierno ci interessa riflette in particolar modo su questo concetto:
quanto il bisogno spasmodico di espressione abbia portato allo svuotamento o, per meglio dire, all’annichilimento della parola
?
Esiste oggi una poesia di facile consumo e di facile scrittura che si sta arrogando il diritto di dirsi poesia. Esiste anche una parola che si sta arrogando il diritto di dirsi ‘lirica’ ma è di fatto vuotata della potenza espressiva che vuole assumere all’interno della forma poetica.
Potremmo dire che sia la parola stessa ad essersi ammalata di nichilismo, in un impoverimento del linguaggio che affonda le sue radici in questioni di natura socio-culturale e di cui, per forza di cose, la letteratura fortemente risente.
Chi è il poeta oggi e come utilizza la parola? Cos’è la poesia oggi? Cosa può dirsi davvero poesia se non la parola vivificatrice ed esploratrice delle pieghe dell’io nel suo rapporto con il mondo?
Sono inchiostri stanchi, pigri, quelli di una buona parte delle penne odierne: l’artigianato della parola si risolve in un utilizzo banalizzante e quasi commerciale del vocabolo, l’espressione immediata e fulminea del tweet e dei messaggi costringono al taglio netto dell’espressione. Ed è proprio in quel vuoto che nasce una letteratura senza scienza, coscienza o autocoscienza: la letteratura delle frasi fatte che dice senza dir nulla.
Salviamo la poesia, sì, è vero. Ma non senza salvare innanzitutto la parola.
Annasara Bucci è nata a Foggia il 29 novembre 1993. É laureata in Lettere Moderne e studia Filologia, Letterature e Storia presso l’Università degli Studi di Foggia. Ha trascorso un periodo di studio all’estero presso Campus de El Milán – Facultad de Filosofía y Letras.